27 GENNAIO, PER NON DIMENTICARE
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005 decreta il Giorno della Memoria al fine di commemorare tutte le vittime dell’Olocausto. La data del 27 gennaio è legata al fatto che in quel giorno nel 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. La Liberazione dei sopravvissuti di Auschwitz e le loro testimonianze rendono noto per la prima volta al mondo l’orrore del genocidio nazista. La tragedia immane dell’Olocausto ha toccato il cuore di moltissimi autori e poeti. Di seguito alcuni testi poetici tra i più significativi, affidati alle voci degli alunni della classe III C: Margherita Baragliu, Claudia Beccu, Rosalia Bruno, Davide Carta, Teresa Cerullo, Eleonora Cottu, Sofia Cucca, Giada Deiana, Francesco Paffi, Mariantonia Podda, Greta Vitzizzai prestano le loro voci per condividere le espressioni poetiche, le emozioni, i sentimenti scaturiti da pagine tanto dolorose e buie della Storia. La poesia è testimonianza luminosa, memoria e ricordo che vince l’oblio.
Coordinamento didattico: Venturella Frogheri
Aprile di Anna Frank
Prova anche tu,
una volta che ti senti solo
o infelice o triste,
a guardare fuori dalla soffitta
quando il tempo è così bello.
Non le case o i tetti, ma il cielo.
Finché potrai guardare
il cielo senza timori,
sarai sicuro
di essere puro dentro
e tornerai
ad essere felice.
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Auschwitz di Peter Paul Wiplinger
Considerare ogni parola
sugli oggetti
sugli occhiali
sulle scarpe
sui capelli tagliati
sulle brune valigie
con i nomi
immagini di dolore
documenti d’orrore
le scatole ammassate
di Zyklon B
le bambole rotte
nella vetrina
le lunghe file
nella latrina
i ferrigni attrezzi
nel crematorio
considerare ogni parola
su la realtà
ad Auschwitz
sbocciano rose rosse
e il cielo
è blu.
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C’è un paio di scarpette Rosse di Joyce Lussu
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede
ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio
di scarpette infantili
a Buchenwald.
Più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald.
Servivano a far coperte per i soldati.
Non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas.
C’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald.
Erano di un bimbo di tre anni,
forse di tre anni e mezzo.
Chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni,
ma il suo pianto
lo possiamo immaginare,
si sa come piangono i bambini.
Anche i suoi piedini
li possiamo immaginare.
Scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti
non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald,
quasi nuove,
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole…
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Il Piccolo Giardino di Frantisek Bass
Il piccolo il giardino
profumato di rose,
è stretto il sentiero
dove corre il bambino:
un bambino grazioso
come il bocciolo che si apre:
quando il bocciolo si aprirà
il bambino non ci sarà.
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L’appello del mattino di Krystyna Zywulska,
Il sole sorge sul campo di Auschwitz,
splendente di un bagliore roseo
stiamo tutti in fila, giovani e vecchi,
mentre nel cielo scompaiono le stelle.
Ogni mattino stiamo qui per l’appello
Ogni giorno, con la pioggia o con il sole
sui nostri volti sono dipinti
dolore, disperazione, tormento.
Forse proprio ora, in queste ore grigie,
a casa mia piange un bambino
forse mia madre sta pensando a me…
La potrò mai rivedere?
In questo momento è bello sognare ad occhi aperti,
forse proprio ora il mio innamorato mi pensa
Ma, Dio non voglia, se
andassero a prendere anche lui?
Come su uno schermo argentato
l’azione continua splendida
poco lontano arriva qualcuno
in una limousine nuova e brillante.
Scendono con lentezza e con grazia,
le “Aufseherinnen” (1) indossano abiti blu.
Ci trasformiamo immediatamente in pilastri di sale,
numeri, nullità inanimate.
Ci contano con arroganza sprezzante
loro, la razza più nobile
sono i tedeschi, la nuova avanguardia
che conta la marmaglia a strisce, senza volto.
All’improvviso, come per una scossa elettrica, rabbrividiamo
al pensiero che simile a un razzo ci balena in testa
costei deve essere anche una moglie o una madre
una donna… E anche io sono una donna…
La pellicola sensazionale si svolge lentamente
“Achtung!” Sistemare la fila!
Questo è un momento davvero speciale,
si avvicina il “Lagerkommandant”.
È possibile che il mondo sia tanto pericoloso?
Un fischio e, in un attimo, il silenzio
fra di noi pronunciamo una preghiera quieta
ma c’è qualcuno che ci può sentire?
Il sole è di nuovo alto nel cielo, brillanti e rosei sono
i suoi raggi. O Dio caro, ti chiediamo
arriveranno giorni migliori?
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La farfalla di Pavel Friedman
L’ultima, proprio l’ultima,
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
così gialla, così gialla!
L’ultima
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà già la mia settima settimana
di ghetto: i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere del castagno
nel cortile.
Ma qui non ho visto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.
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Mattino di Selma Meerbaum-Eisinger
Il vento canta la sua ninna nanna
con un fruscìo di sogno,
teneramente adula le foglie.
Mi lascio sedurre e spio quel canto
e mi sento come i prati.
Scrosci nell’aria
rinfrescano il mio viso
cocente, racchiuso nell’attesa.
Nuvole in viaggio riversano la bianca
luce che hanno rubato al sole.
La vecchia acacia
spande il suo silenzio
nel tremulo intrico di foglie.
Gli aromi della terra si alzano, salgono
e scendono poi su di me.
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Museo di Auschwitz di Michael Etkind
Capelli morti
che un tempo abbellirono
il capo di giovani donne
ed ora giacciono
dietro vetro trasparente.
Scarpe vecchie
che calzarono i loro piedi
e li condussero qui.
E vecchi occhiali,
denti finti,
alcune stampelle, e
qualche protesi.
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Se questo è un uomo di Primo Levi
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome,
senza più forza di ricordare,
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa, andando per via,
coricandovi, alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
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Da domani Poesia di un ragazzo trovata in un Ghetto nel 1941
Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi sarò contento,
a che serve essere tristi, a che serve.
Perché soffia un vento cattivo.
Perché dovrei dolermi, oggi, del domani.
Forse il domani è buono, forse il domani è chiaro.
Forse domani splenderà ancora il sole.
E non vi sarà ragione di tristezza.
Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi, oggi sarò contento,
e ad ogni amaro giorno dirò,
da domani, sarà triste,
Oggi no.
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Filo spinato di Peter, bambino ebreo ucciso dai nazisti nel ghetto di Terezin
Su un acceso rosso tramonto,
sotto gl’ippocastani fioriti,
sul piazzale giallo di sabbia,
i giorni sono tutti uguali,
belli come gli alberi fioriti.
È il mondo che sorride
e io vorrei volare. Ma dove?
Un filo spinato impedisce
che qui dentro sboccino fiori.
Non posso volare.
Non voglio morire.
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La casa di Frantisek Bass
Fisso e fisso il vasto mondo,
il mondo vasto e distante,
fisso e fisso verso sud-est,
fisso e fisso verso casa mia.
Fisso e fisso verso casa,
verso la città dove sono nato.
Oh, mia città, mia città natale,
con quale gioia tornerei da te.
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Nostalgia della casa, di autore Anonimo
È più di un anno che vivo al ghetto
nella nera città di Terezin
e quando penso alla mia casa
so bene di che si tratta.
O mia piccola casa, mia casetta,
perché m’hanno strappato da te,
perché m’hanno portato nella desolazione,
nell’abisso di un nulla senza ritorno?
Oh, come vorrei tornare
a casa mia, fiore di primavera!
Quando vivevo tra le sue mura
io non sapevo quanto l’amavo
Ora ricordo quei tempi d’oro
presto ritornerò, ecco già corro.
Per le strade girano i reclusi
e in ogni volto che incontri
tu vedi che cos’è questo ghetto,
la paura e la miseria.
Squallore e fame, questa è la vita
che noi viviamo quaggiù,
ma nessuno si deve avvedere:
la terra gira e i tempi cambieranno.
Che arrivi dunque quel giorno
in cui ci rivedremo, mia piccola casa!
Ma intanto preziosa mi sei
perché mi posso sognare di te.
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Auschwitz di Salvatore Quasimodo
Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell’aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.
Tu non vuoi elegie, idilli: solo
ragioni della nostra sorte, qui,
tu, tenera ai contrasti della mente,
incerta a una presenza
chiara della vita. E la vita è qui,
in ogni no che pare una certezza:
qui udremo piangere l’angelo il mostro
le nostre ore future
battere l’al di là, che è qui, in eterno
e in movimento, non in un’immagine
di sogni, di possibile pietà.
E qui le metamorfosi, qui i miti.
Senza nome di simboli o d’un dio,
sono cronaca, luoghi della terra,
sono Auschwitz, amore. Come subito
si mutò in fumo d’ombra
il caro corpo d’Alfeo e d’Aretusa!
Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: “Il lavoro vi renderà liberi”
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all’alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all’acqua con la bocca
di scheletro sotto le docce a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d’animali,
o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
d’un tempo di saggezza, di sapienza
dell’uomo che si fa misura d’armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.
Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.
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Ricordatevi di Benjamin Fondane
Ricordatevi solo che ero innocente
e che, come voi, mortali di quel giorno,
avevo avuto, anch’io, un volto segnato
dalla collera, dalla pietà e dalla gioia,
un volto d’uomo, semplicemente!
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Olocausto di Barbara Sonek
Abbiamo suonato, abbiamo riso
eravamo amati.
Siamo stati strappati dalle braccia dei nostri
genitori e gettati nel fuoco.
Non eravamo altro che bambini.
Abbiamo avuto un futuro. Saremmo diventati avvocati, rabbini, mogli, insegnanti, madri. Avevamo dei sogni, quindi non avevamo speranze. Siamo stati portati via nel cuore della notte come bestiame in macchina, senza aria per respirare soffocando, piangendo, morendo di fame, morendo. Separato dal mondo per non esserci più. Dalle ceneri, ascolta il nostro appello. Questa atrocità per l’umanità non può ripetersi. Ricordati di noi, perché eravamo i bambini i cui sogni e vite furono rubati.
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