“IL TEATRO NOH” di Irene Biggio
Sta per finire il quadrimestre, le interrogazioni si accumulano e ora più che mai, abbagliata come sono dal computer, mi sento lontana dal mondo che in teoria sto cercando di studiare.
Qualche giorno fa, durante la mia decima “pausa dallo studio”, nella home page di YouTube mi sono imbattuta in un video intitolato “The spirit of Noh”, un breve documentario sulla più antica forma di teatro giapponese ancora praticata.
Stanca di aver a che fare con le figlie viziate del balzachiano Père Goriot (povero Cristo!), mi sono lasciata incuriosire.
Ho visto il video e poi, perché no?! Ne ho visto un altro e un altro ancora…
Mi si è aperto un mondo nobile, quasi ipnotico, di una spiritualità solenne, di una forza elegante e di una delicatezza sospirata.
Il teatro Noh, che nacque nel 14esimo secolo con il grande Zeami Motokiyo, si concentra sulla profondità delle emozioni più che sulla storia narrata e, per quanto riguarda la musica, più sul ritmo che sulla melodia.
Noh significa “talento” e ogni attore cerca di raggiungere lo Yugen ossia un’eleganza trascendentale, la bellezza della sofferenza umana che traspare, come disse Zeami, specialmente nelle delicate emozioni di una giovane donna.
L’aspetto più intrigante sono, però, le maschere che lo shite, l’attore protagonista, indossa.
Queste infatti paiono inespressive, vuote: sta all’attore riempirle e far sì che siano uno strumento in grado di trasmettere sentimenti profondi e universali. L’ effetto ha un impatto tale che, a confronto, il volto umano sembra incapace di trasmettere l’emozione vera, rendendola superficiale, direi quasi troppo umana, troppo fisica. Esistono molte tipologie di maschere che rappresentano dei caratteri generali e possono essere utilizzate per svariati ruoli. Altre sono create per specifici personaggi storici come la maschera Komachi che rappresenta l’anziana poetessa Ono-no-Komachi vissuta nel nono secolo dell’era di Heian.
Sono particolarmente interessanti le maschere dei personaggi femminili come:
- Ko-omote, la giovane donna dai tratti nobiliari;
- Yase-anna, anima che soffre in purgatorio perché incapace di lasciarsi alle spalle il mondo umano;
- Hannya, maschera di un demone dalle lunghe corna e dal ghigno malevolo, frutto della trasformazione di una donna ossessiva, subdola e estremamente gelosa in amore.
Addirittura nei matrimoni tradizionali viene indossato dalle spose lo Tsunakakushi, copricapo il cui nome tradotto significa letteralmente “copri corna”, per nascondere, per l’appunto, le corna di gelosia e smorzare l’ego.
I personaggi femminili vengono interpretati da uomini che non modulano il proprio tono per renderlo più femminile ma cantano con la propria voce, come se attraverso la maschera il canto perdesse genere e trasmettesse solo il sentimento.
Di solito lo shite indossa una maschera per tutto il primo atto e poi nel secondo la cambia con una che rivela la vera natura del personaggio.
Sta a lui scegliere la propria maschera: prima di entrare in scena la osserva, ne coglie l’intensità e poi la avvicina al volto sino a farla aderire completamente: si può considerare ora come una seconda pelle. Poi l’attore si osserva allo specchio, assorbe la sua immagine e diviene il personaggio.
Lo shite canta con il coro, balla al ritmo dei tamburi e dietro ai dorati iridi, sotto il voluminoso costume, c’è il sentimento puro, un soffio di animo che vibra attraverso la maschera per poi raggiungere il mondo terrestre.