“MIRENDE OLOS DE CADDOS DE DEU”, RACCOLTA DI POESIE DI ANTONIO SANCIU
Note a cura di Venturella Frogheri
“Mirende olos de caddos de deu” (“Guardando il volo delle libellule”) è il suggestivo titolo di una nuova raccolta poetica in lingua sarda di Antonio Sanciu. Dopo “Sa chigula non sessat de cantare” (“La cicala non smette di cantare”), questa recente pregevolissima silloge, pubblicata nella Piccola collana di memorie ideata da Salvatore Tola per i tipi della casa editrice Soter, indubbiamente conferma il mirabile talento poetico di un autore connotato da una raffinata sensibilità e profonda maturità. Un particolare significato dell’opera, contenente componimenti scritti come detto in lingua sarda ma accompagnati anche dalla traduzione italiana, può essere evocativamente suggerito dal titolo stesso della raccolta: il verbo mirende, che richiama il latino miror, rappresenta il sentimento di stupore, di meraviglia, di rispetto con il quale Antonio Sanciu sembra contemplare, quasi vagheggiare il mondo, gli uomini, le cose, la natura nella bellezza dei suoi incanti. Oggetto di mirende sono gli olos, i voli della libellula. Non è certamente senza significato la scelta di questa particolare creatura alata, così leggiadra ed elegante, così speciale nella sua aerea leggerezza, attorno alla quale ruotano numerose leggende e tanti significati simbolici: il suo nome parrebbe derivare dal latino libra, ovvero bilancia, per la forma delle sue ali in volo, o secondo altra interpretazione dal termine libellum nel senso di libero: simbolo quindi di libertà, e della forza dell’equilibrio. Nel nome in sardo poi (caddos de deu) appare chiaramente il riferimento ad un essere che è tramite tra il mondo arcano del trascendente e quello umano del contingente. Una antica leggenda racconta che una volta la libellula fosse un drago saggio che di notte emanava luce con il suo alito di fuoco (la libellula è detta in inglese dragonfly). Tale riferimento parrebbe alludere alla libellula come simbolo della ricerca di verità nascoste. Ed allora il titolo scelto per questa raccolta poetica potrebbe richiamare da un lato la contemplazione della bellezza della natura, dall’altro il valore della poesia come ricerca, come una sorta di lente inedita con cui leggere la realtà per riuscire ad esprimere l’ineffabile, il misterioso attraverso la parola. La raccolta di Antonio Sanciu si configura di fatto come una sorta di vero e proprio itinerario, un viaggio che a partire dal primo componimento, “In caminu” (Cantas vias mi so postu in caminu/chen’ischire nemmancu a ue fia andende/…e sempre gai mantessi est sa cantone/ andende a innanti so che pellegrinu”) è come un percorso tracciato secondo un comune filo conduttore (la ricerca appunto), che conduce a s’arcu pintu (l’arcobaleno): “como chi su caminu est achipidu/appo cumpresu chi cuss’illusione/fit mama ‘e tita de sa vida mia”. L’arcobaleno, in qualche modo legato alla immagine della libellula può essere raffigurato come un vero e proprio ponte tra la dimensione materiale e quella spirituale, simboleggia la comunicazione tra terra e cielo e diviene quindi emblema di speranza, di ricerca, di raggiungimento di una sempre più meditata consapevolezza di sé. E’ questa la cifra più profonda della poetica di Antonio Sanciu: un cammino, ispirato alla saggezza (quel sapere che, come conferma la suggestiva etimologia latina dal verbo “sapio” dà sapore alla vita), tra gioie e tristezza, stupore, illusioni e disillusioni, fino ad apprendere che la vita somiglia a un sogno (La vida es sueño, per citare Pedro Calderón de la Barca), come afferma in “In su putu de sa Sibilla”: “sa vida s’assimizat a un’ ijone/ da una mente superna zenerada/ e dae piena cussentzia acumpanzada/ in unu mundu de sol’ illusione”. “La poesia – ha detto Mariangela Gualtieri – è una forza che può mettere in moto un cambiamento interiore”. Si può allora evidenziare la valenza “filosofica” della poesia di Antonio Sanciu nella misura in cui si fa riflessione, speculazione, scandaglio che si origina dalla meraviglia e dallo stupore, vera essenza della filosofia e della nostra vita.
La silloge si articola come entro un percorso, costellato di esperienze, di incontri, di accadimenti, rappresentati in componimenti che offrono al lettore una tela poetica ricchissima di suggestioni e di immaginazione, attraversati da una straordinaria policromia di sentimenti: dalla malinconia alla tenerezza, dalla garbata ironia alla dolcezza che si alimenta di un pensiero più intimo. Ed entro le trame di questo tessuto si intrecciano, come tra i fili di un meraviglioso ricamo, rimandi ed echi, sapientemente disseminati, in forme quasi allusive, alla classicità, segno inequivocabile di acquisizioni culturali profondamente sedimentate ed autenticamente interiorizzate dall’autore (laureato, è bene ricordarlo, in Lettere Classiche): ecco il richiamo a Catullo in “Sos basos chi dia cherrer de mi dare”; la selva oscura di dantesca memoria pare evocata in “In eremosu asprile”: “A denote in eremosu asprile/tochende so in mesu a s’abbuera/ ch’apo imbucadu mala caminera/et sas lughes non bido ‘e s’impuddile”). Ed ancora ecco una vena di malinconia quasi oraziana in “Su sabore de su sale”: “Su ch’est bellu pruite at paga dura? / e pruite nudda nos restat in manu?” E poi richiami agli Idilli di Teocrito sembrano potersi scorgere in diverse rappresentazioni di scenari naturali quasi edenici nella dimensione perfetta del locus amoenus. Ma c’è posto anche per aneddoti scherzosi legati a personaggi noti del mondo antico come in “Scipione Nasica e Ennio”, brano connotato da un garbato senso dell’umorismo, mentre “Tronos e abba a tracheta” riscrive con sottile ironia l’episodio in cui Santippe, presa da uno dei suoi frequenti attacchi d’ira, avrebbe scagliato in testa al marito Socrate una brocca d’acqua. Particolarmente icastici i versi d’amore, in cui traspaiono rari accenti di delicatezza e tenerezza, spesso associate alla bellezza dei fiori (“Sa rosa e su ziranu” “Sos frores tuos m’han abbereladu/ chin su profumu de sa berania/ in unu mundu deo so ispentumadu de galania”). E non manca un sentire di pacata malinconia al pensiero della morte, vista senza disperazione ma come un viaggio verso una dimensione di chiarore e di luce in “Bolende” “E benit su mamentu chi ses solu/e ti s’istudan totu sos ammentos/s’anima bessit dae su caragolu/lassende sos umanos pensamentos/ e liberada si ch’andat a bolu…./ in bratzos como ses de una currente/chi a sa lughe t’ispinghet serente” “La poesia malinconica e sentimentale è un respiro dell’anima” dice Giacomo Leopardi e questa definizione si attaglia particolarmente alla ispirazione di Antonio Sanciu. Leggendo i suoi componimenti, percorrendo questo viaggio non si può non essere colpiti dalla straordinaria capacità dell’autore di declinare la lingua sarda in maniera così vivida, attenta, pregnante, musicale, con un particolare rigore dal punto di vista metrico e nelle scelte lessicali. “Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere”. Le parole di Emily Dickinson sembrano richiamare il valore dei versi di questa raccolta: splendenti perchè armoniosi, vibranti di calore, palpitanti di vita, capaci di esprimere forza ed intensità di sentimenti, tali da suscitare nel lettore coinvolgimento, diletto ed emozione.