IL CASO JULIAN ASSANGE: Dalle prime rivelazioni di WikiLeaks al processo di Matteo Podda
Julian Assange non sarà estradato negli Stati Uniti, dove lo attendevano ben 18 capi d’accusa per un totale di 175 anni di reclusione. Questa la decisione del giudice Vanessa Baraitser, risalente a pochi giorni fa e giustificata dal rischio del suo suicidio in caso di detenzione negli USA, date le sue condizioni psichiche instabili. Ma riprendiamo dall’inizio, chi è Julian Assange e cosa lo ha portato a rischiare quasi due secoli di detenzione?
Risale al 2006 la fondazione, da parte del giornalista australiano, di WikiLeaks, una piattaforma online no-profit atta a ricevere e pubblicare sul proprio sito web informazioni segrete dei governi di tutto il mondo, avente come obiettivo la messa al vaglio della giustizia e dell’etica delle azioni degli Stati, nell’auspicio di un rafforzamento della democrazia.
Fin dal momento della sua nascita WikiLeaks si rivela una vera e propria stanza degli orrori: tante le nazioni le cui notizie sono divulgate dalla piattaforma, ma certamente quelli maggiormente coinvolti risultano gli Stati Uniti d’America. Grazie all’appoggio della militare statunitense Chelsea Manning, il sito australiano pubblica, infatti, circa 700 mila documenti top secret contenenti informazioni sulla guerra statunitense in Afghanistan, con riferimento all’uccisione di numerosi civili da parte delle truppe statunitensi.
L’odissea giuridica di Assange non si deve però alle sue pubblicazioni, bensì a due accuse per stupro rivoltegli da due donne svedesi. Nel 2010 venne divulgato un mandato di cattura europeo in risposta al quale il giornalista, pur dichiarandosi innocente, si consegnò alle autorità britanniche. Dopo nove giorni di detenzione gli venne concessa la libertà vigilata, ma, avendo la Svezia intavolato le carte per procedere all’estradizione e poiché il giornalista temeva di poter essere poi estradato dalla penisola scandinava fino all’America, questi decise di rifugiarsi nell’ambasciata ecuadoriana.
Assange ne rimase ospite per 7 lunghi anni, fino al 2019, fino a quando il nuovo presidente ecuadoriano, Lenin Moreno, lo espulse dall’ambasciata e permise così alla polizia britannica di procedere alla cattura, poiché ritenne il giornalista reo di aver violato le condizioni dell’asilo politico. La sua presunta colpa era l’aver pubblicato nel 2016 notizie su come i dirigenti del Partito Democratico USA avessero tramato contro il popolare candidato della sinistra, Bernie Sanders, affinché Hillary Clinton vincesse le primarie. Pochi mesi dopo l’australiano fu così condannato a 50 settimane di prigione per aver violato le condizioni della libertà vigilata rifugiandosi nell’ambasciata dell’Ecuador.
Dopo la condanna arrivò l’intervento degli USA, che richiesero all’Inghilterra l’estradizione; intervenne allora l’ONU tramite il relatore speciale sulla tortura Nils Melzer, che visitò il fondatore di WikiLeaks in carcere e affermò che le sue condizioni presentavano “tutti i sintomi della tortura psicologica” e che la sua vita era in pericolo.
Dunque, nel febbraio dell’anno scorso iniziò il processo per l’estradizione e la bilancia pareva pendere a favore degli USA, con la giudice che non riconosceva il carattere giornalistico delle attività di Assange, considerandole potenzialmente criminali, e non voleva accettare la tesi della difesa secondo cui Assange rischiava “un processo politico” negli Stati Uniti. L’unico punto in cui la giudice concordò con la difesa fu tuttavia sufficiente a permettere la negazione dell’estradizione dell’uomo: infatti, avendo appurato che negli USA i detenuti per reati legati alla sicurezza nazionale vengono sistematicamente sottoposti a misure particolarmente severe quali isolamento stretto e accesso molto limitato alle visite e al telefono, questa stabilì che l’estradizione avrebbe messo a rischio la salute mentale del giornalista.
Dalla vicenda emerge un problema: la mancata estradizione di Assange non si configura come una vittoria della libertà di stampa, in quanto il giudice stesso si trova d’accordo con l’accusa nel ritenere l’australiano perseguibile per la pubblicazione dei documenti. Di conseguenza risulta opportuno porsi questa questione: fino a che punto è veramente concessa la libertà di stampa? Può uno stato nascondere gli e/orrori commessi con la parola “top secret” per poi non assumersene la responsabilità nel momento in cui questi vengono svelati, andando addirittura a colpevolizzare colui che rende queste faccende pubbliche?