LA LINGUA DELLE FARFALLE recensione di Giada Manunta

“La lingua delle farfalle” di José Luis Cuerda, tratto dall’omonimo romanzo di Manuel Rivas, non è un film che potrebbe rientrare nella lista dei preferiti di qualcuno, o almeno di noi “centennials”. Tuttavia, a prescindere dal ritmo lento e della risoluzione discutibile, rimane impresso per giorni nella mente e impegna in alcune riflessioni che ordinariamente la maggior parte di noi non affronterebbe. 

La lingua delle farfalle (1999) | FilmTV.it

Il protagonista è un bambino di sei anni, Moncho, che si sta appena affacciando alla vita; inizia a frequentare la prima elementare (malvolentieri s’intende, a causa dei vari pregiudizi insidiati inconsapevolmente dai genitori) e a rapportarsi con un insegnante di orientamento repubblicano sui sessant’anni, Don Gregorio, e con i compagni di classe. Il passerotto, così come viene spesso chiamato dai genitori e dal suo maestro, inizia ad agitare le ali per spiccare il volo e prendere le distanze da una Spagna del 1900, dipinta solo di squallore, sangue e degrado. Siamo infatti nell’inverno/primavera del 1936, all’alba di una guerra civile nata dal colpo di stato che porterà Francisco Franco a capo di una delle tre dittature europee del Secolo Breve. E sarà esattamente quest’avvenimento a tarpare le ali del bambino e di tutta quella Spagna che credeva nella Repubblica. 

Alla luce di ciò, una delle tante riflessioni che vorrei proporvi è quella relativa alla figura dell’insegnante, tema che chiaramente ci riguarda in prima persona. 

Don Gregorio è un maestro che, soprattutto considerando il periodo storico analizzato, si distingue poiché non si limita a sproloquiare di nozioni infeconde ma appassiona i bambini e soprattutto Moncho, bambino vispo e attento osservatore: li assorbe in intense dimensioni oniriche, concede loro la smaterializzazione in epoche e luoghi altri. Così i bambini si trovano in groppa agli elefanti di Annibale che brama Roma, combattono le guerre napoleoniche con bastoni e pietre a Ponte Sampajo, scrivono canzoni d’amore tra i campi di lavanda della Provenza. E non solo imparano con trasporto, ma vengono educati con la gentilezza di un vecchio maestro affettuoso che, quando i bambini non ascoltano, non urla, non li batte, ma tace fino a quando non sono i bambini ad imporsi il silenzio per poter continuare a far tesoro dei suoi seducenti fiumi di sapere; la stessa gentilezza che lo porta a chiedere scusa quando si accorge di aver ferito la sensibilità di un piccolo allievo, trattandolo come suo pari; la stessa gentilezza che sboccia come un fiore maturo, pronto a nutrire tante piccole farfalle.

Farfalle come presagi: i loro colori e significati

Ed è proprio al mondo dei lepidotteri che il titolo si ispira. In una scena, il maestro spiega agli alunni come questi insetti suggestivi si nutrono attraverso la spiritromba:

“La lingua della farfalla è una tromba avvolta a spirale come una molla da orologio. Se un fiore l’attrae, la srotola e la infila nel calice per succhiare il nettare.”

Non potremmo forse trovare un paragone migliore per l’Apprendimento degno di tale nome? No. In una metafora c’è libertà di pensiero ed espressione (dice infatti “se un fiore l’attrae”, quindi da rilevanza alla volontà), necessità (appunto perché parliamo sempre di sostentamento, essenziale alla vita e alla crescita, figurata e non) ma soprattutto trasporto (con l’espressione finale indubbiamente trasla il piacere per così dire “gustativo” a quello mentale).  

Una personalità forse più al passo con la pedagogia moderna di quanto non lo siano alcuni nostri educatori contemporanei.  Non è solo un insegnante, ma un mentore che, non imponendo le proprie ideologie politiche e le proprie dottrine religiose (come invece tutt’oggi fanno certe figure non proprio imparziali e non proprio laiche), condivide più prospettive e trasmette valori universali, quali l’interesse per ciò che ci circonda, fame di vita e di conoscenza, intesa come crescita personale ed espansione della propria persona aldilà dello spazio e del tempo, ed infine apprezzamento per ciò che, dopo una prima occhiata, potrebbe sembrare diverso.  

Altri spunti potrebbero essere le istituzioni religiose, spesso anacronistiche, che quindi non riescono a tenere il passo con i tempi, o ancora i sogni di un giovane che sembrano brillare troppo rispetto all’ambiente socio-culturale in cui è immerso, oppure la condizione umana da sempre vissuta in una tensione costante tra sensualità edonistica, bestialità, speranza e fragilità. 

Il finale non suscita rabbia, ma pena e tristezza per le personalità che vengono ingoiate da quel buco nero che è l’ignoranza. Tutti gli insegnamenti sembrano svanire nel momento in cui il bambino si accinge a lanciare la pietra in uno spasmodico gesto. La guerra, la miseria, l’assenza di guide e cultura soffocano tutto ciò che è stato appreso fino a quel momento. O almeno così pare…  

Insomma, non sarà il più alto livello di cinematografia, ma vale la pena vederlo per gli spunti che offre.  

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