“PORTAMI A SINE DIE”, NOTE A CURA DI VENTURELLA FROGHERI
di Venturella Frogheri *
Sine die è una locuzione latina che significa propriamente “senza giorno [stabilito]”: l’espressione allude a qualcosa di indefinito, di indeterminato. Il toponimo Sindia, il centro più occidentale della provincia di Nuoro, sembra avere una particolare assonanza con la locuzione latina. Ed è appunto a Sindia che ci riconduce il titolo del libro, che in maniera particolarmente evocativa sembra suggerire l’invito a recarsi in una dimensione lontana, vaga, quasi remota, come remoti e lontani sono i luoghi della memoria e del cuore.
Sindia è un piccolo paese della Sardegna, un microcosmo in cui tutti conoscono tutti, certo non dissimile da tante piccole realtà della nostra terra. E’ l’ambiente che fa da sfondo alle vicende narrate nel romanzo “Portami a Sine Die”, edito per i tipi della casa editrice Amicolibro, con il quale Sebastiano Chessa fa il suo esordio nel panorama letterario sardo.
E’a Sine Die che Lallo, il giovane protagonista della narrazione, vive un indimenticabile soggiorno estivo, di quelli che si vivono nella giovinezza per poi essere ricordati per sempre, una stagione di esperienze, incontri, accadimenti che segneranno per sempre la sua esistenza e determineranno il definitivo passaggio, tanto difficile a volte quanto esaltante, dall’infanzia all’età adulta.
Intorno a lui i suoi amici: relazioni fatte di scoperte, divertimento, momenti di svago, la musica trasmessa dalle prime radio libere, i concerti, lo sport. Ed insieme a lui la nonna: tzia Vittò è indubbiamente indiscussa protagonista del racconto: una donna oramai avanti con gli anni e connotata da tratti umanissimi che la rendono determinata, fiera, stimata e rispettata da tutti nel paese, sapiente custode di quei valori antichi, di quel prezioso “mos maiorum” sul quale ha imperniato l’intera sua esistenza, forte di una fede religiosa saldissima. Ed è proprio grazie al ritrovato rapporto con la nonna che Lallo potrà scoprire verità che appartengono alla storia della sua famiglia, ricostruite attraverso una sorta di tecnica retrospettiva, e sarà in grado di riannodare come entro una trama fittissima di rimandi, i fili che lo legano al passato e che rappresentano al contempo le necessarie premesse per volgersi al futuro con una più forte ed assennata consapevolezza di sé. Un ragazzo ed una donna anziana: lui, attento e sensibile che si affaccia alla vita, lei che attraversa la stagione conclusiva della sua esistenza; lui che si proietta verso il futuro, con gli slanci, gli entusiasmi, talora le ingenuità, le incertezze, gli interrogativi peculiari di un’età tanto stimolante quanto talora venata di ansia e di inquietudine; lei che, forte delle sue esperienze di vita, sostenuta e accompagnata dai ricordi (belli, certo, ma talvolta anche dolorosi, come lo sconvolgente episodio del fulmine che tronca drammaticamente una giovanissima vita), osserva la realtà con sguardo critico, con un approccio ispirato alla concretezza, all’equilibrio e alla ragionevolezza.
Nel rapporto che lega le figure dei due protagonisti è forse possibile individuare una delle chiavi di lettura più significative della narrazione: il motivo topico del romanzo di formazione trova qui la sua realizzazione concreta, lasciando intravedere al lettore attento spunti di riflessione che riguardano per ognuno percorsi legati alla vita, al tempo, alla maturazione, alla presa di coscienza, alla formazione, ovvero paideia, in una parola alla crescita. Motivi universali, come è facile intendere, declinati entro uno sfondo di paese che si configura anch’esso in un certo modo come realtà universale, microcosmo di esistenze semplici ma non per questo meno significative, vissute all’insegna della laboriosità e insieme di un profondo, quasi innato, senso del decoro, di una pregnante autenticità.
Non è difficile scorgere l’amore saldo che lega l’autore al suo paese; quel senso di radicamento, di profonda appartenenza, si potrebbe dire di identità, lo stesso che spinge a scrivere, per non dimenticare, certo, per lasciare traccia, ma anche per rivivere idealmente le emozioni che hanno accompagnato gli eventi vissuti, come in un vero e proprio amarcord, sfilata di ricordi che si susseguono. Ed è proprio lungo questa linea di ricordi, significativamente sottesa a tutta la narrazione, che si dipana una trama affidata a scelte stilistiche particolarmente efficaci nella riproduzione di espressioni e stilemi tipici della lingua parlata e di toni colloquiali, evocativi della ferialità del quotidiano e di icastica immediatezza, tali da proiettare idealmente il lettore nei luoghi descritti con grande precisione ed accuratezza: la casa, innanzitutto, simbolo per eccellenza di ciò che siamo nel profondo, depositaria di significati spesso reconditi, è un contenitore di prime esperienze e di vissuti irripetibili, è il luogo dove vengono custoditi i nostri ricordi, dove continueranno sempre ad esistere parti di noi e dei nostri cari, con le stanze, gli oggetti che racchiudono memorie di un passato mai cancellato ma sempre vivo.
E ancora le strade del paese, le piccole botteghe, teatro di incontri, di scambi: un piccolo mondo antico nel quale si intravedono gli inequivocabili segni della modernità, del nuovo che avanza, accanto alle feste tradizionali, che connotano ed alimentano la religiosità degli abitanti e che ritmano il ciclo delle stagioni di una civiltà ancorata ad una realtà prettamente agricola e pastorale ma aperta al cambiamento. “Portami a Sine Die” è tutto questo: un’opera da leggere per riconoscersi o per scoprire un “come eravamo”.
Ed anche per riflettere sul significato profondo della appartenenza ad una comunità perché “un paese ci vuole” – come dice Cesare Pavese nel suo ultimo libro “La luna e i falò”: “Un paese ci vuole non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
*Docente di Lettere